Ludwig MIES van der ROHE, Wohnanlage Afrikanische Straße, Berlin-Wedding, 1926-1927




È l’unico complesso di edilizia sociale realizzato da Mies van der Rohe a Berlino. La commissione fu ottenuta direttamente da Wagner, assessore all’urbanistica di Berlino, nel 1925. L’insediamento è formato da quattro edifici, di cui tre in linea, per un totale di 88 unità abitative. Occupa una lunga striscia di terreno sul lato sud-ovest della Afrikanische Straße, di proprietà della Società edilizia Primus. I tre blocchi in linea, paralleli alla Afrikanische Straße, ma arretrati dal filo stradale, sono uguali tra loro e sono divisi tra loro da Dualastraße e da Ugandastraße, perpendicolari alla via principale. L’edificio più meridionale, posto sull’angolo Afrikanische Straße/Tangastraße, è invece composto da tre corpi di fabbrica cubici scalati tra loro. I tre edifici in linea si compongono di un blocco più lungo e da due blocchi più corti che si congiungono perpendicolarmente a quello maggiore. Le tre parti della costruzione sono "incernierate" tra loro da balconcini arrotondati. Mentre il corpo principale è composto da tre piani e da un sottotetto insolitamente piuttosto alto, le due ali laterali, per meglio raccordarsi con le case bifamiliari già esistenti lungo le vie secondarie, che dalla Afrikanische Straße portano al Goethepark, sono più bassi e si sviluppano verticalmente solo su due piani. I due corpi angolari conferiscono una forma a U al blocco e creano sul retro un cortile-giardino privato che si distende dietro il corpo longitudinale. Altro verde attrezzato, ma a carattere pubblico, è stato ottenuto anche tra i fronti degli edifici e il filo stradale. I sottili pioppi che svettano davanti agli edifici sono stati concepiti come precisi elementi architettonici, la cui funzione è proteggere gli alloggi dai rumori della strada. Dal punto di vista formale, il complesso anticipa quella che sarà la futura architettura spoglia e lineare di Mies van der Rohe. Gli edifici, che si innalzano su uno zoccolo in klinker, si fanno notare per la loro particolare essenzialità e per gli spigoli vivi. Sono infatti costruzioni cubiche con tetto piano, pareti intonacate e sottile cornicione superiore costituito da tre semplici file di mattoni. Le facciate sono accuratamente proporzionate, levigate e assolutamente bidimensionali, nelle cui pareti sono state ritagliate finestre quadrate e rettangolari, dai sottili telai in legno verniciato di bianco. Ogni blocco ha tre ingressi e due appartamenti distribuiti su ogni piano. I lunghi prospetti, tinteggiati in color ocra, sono divisi solo dalle fasce orizzontali delle finestre degli alloggi e da quelle verticali dei vani scala. Questi edifici, dal linguaggio così scarno e geometrico, si inquadrano in quello stile che, nel dibattito artistico tedesco di allora, veniva definito Neue Sachlichkeit. Sul fronte posteriore, che si affaccia sul cortile interno, il tetto è invece leggermente aggettante; qui i balconi sporgono dalla parete trasmettendo l’idea di una costruzione massiccia. L’organizzazione degli spazi interni è simile a quella portata avanti in quegli stessi anni a Berlino anche da altri architetti sensibili alla questione sociale. Le cellule abitative hanno planimetrie razionali, con orientamento est-ovest. Sono appartamenti di piccole dimensioni, da 1 a 3 stanze, ma all’avanguardia per quegli anni, in quanto già dotati di bagno interno e angolo-cucina. In alcune unità, ampie cucine-soggiorno si aprono sul retro sul balcone che dà sul cortile-giardino, costituendone un ampliamento, in particolare nei mesi estivi. Nei corpi angolari sono presenti alloggi a due stanze con cucina-soggiorno. Come altri architetti europei del periodo, anche Mies van der Rohe considerava la razionalizzazione della distribuzione spaziale e la standardizzazione tecnico/costruttiva della cellula abitativa e dell’edificio residenziale popolare un mezzo che, insieme all’organizzazione dell’insediamento residenziale, avrebbe contribuito al raggiungimento di nuove forme di vita, e non come obiettivo puramente tecnico fine a se stesso. (testo e immagini di Pierluigi ARSUFFI, tutti i diritti riservati)