Peter BEHRENS, AEG-Turbinenfabrik, Berlin-Moabit, 1908-1909




L'edificio è situato nella periferia nord di Berlino, nella città operaia del primo Novecento, con la facciata sulla Huttenstraße e la fiancata esterna sulla Berlichingerstraße. Le sue caratteristiche hanno determinato una svolta nella contemporanea architettura industriale. L’imponente edificio è composto dalla Turbinenhalle e da un corpo laterale più basso con copertura piana. Per la struttura portante, Behrens ha utilizzato il sistema costruttivo a scheletro metallico. La struttura portante è composta da un telaio a traliccio a tre cerniere, visibile all'esterno solo per quanto concerne i montanti disposti fra le ampie vetrate dei lati lunghi del capannone. Il ricorso alle strutture metalliche fu dettato dalla necessità di avere uno spazio interno ben illuminato e privo di ostacoli. La galleria interna, larga 25,6 mt e alta 15, ha permesso l’installazione dei macchinari necessari alla produzione. Nell'interno (lungo 123 mt, successivamente portato a 207 mt), in uno scenario da "città tecnologica", giganteschi ponti mobili permettevano di assemblare le turbine per poi trasportarle all'esterno tramite un binario ferroviario. Ma l'intento di Behrens non era quello di affidare il carattere dell'opera unicamente alle sue valenze costruttive e funzionali, ma anche a quelle estetiche. Per questi motivi rinunciò al rivestimento in pietra allora in uso, in particolare nelle stazioni ferroviarie, esibendo il nudo scheletro dell'edificio. Sui fronti, la struttura della copertura, sebbene non visibile, ha determinato il profilo superiore dei prospetti. Su questi lati si è formato una sorta di massiccio frontone a profilo spezzato che aggetta dalla muratura sottostante creando un gioco di incastri fra materiali diversi. Al di sotto del "timpano" poligonale vi è una grande vetrata (simile a quella delle campate laterali), che, con la sua trasparenza, alleggerisce la compatta massa muraria della facciata, larga 39,3 mt. Vetrata e timpano, risultando su un unico piano, disegnano la testa di un'enorme vite, evidente richiamo alle attività meccaniche dell’azienda. Sugli angoli sono presenti massicci corpi murari leggermente digradanti che raggiungono il filo del cornicione determinando l'aggetto di questo e del timpano, nonché una forte zona chiaroscurale. L'imponenza del timpano e dei potenti pilastri angolari conferiscono al capannone l'aspetto di "un tempio del lavoro e del progresso", chiara allusione sia alle fonti d'ispirazione artistica di Behrens, sia al messaggio che l'AEG intendeva comunicare. Lungo la Berlichingerstraße, il maestoso interno si proietta all’esterno tramite le sue ampie vetrate, strutturate da 14 pilastri posti a una distanza di 9,22 mt tra loro. La lunghissima trave poggia su queste strutture verticali a formare un monumentale sistema trilitico. Il fusto dei piedritti metallici si rastrema verso il terreno dove, invece della base, si trova una cerniera che interrompe di netto il pilastro nel suo punto di appoggio e lo stacca dallo zoccolo, evidenziando così le nuove possibilità costruttive del ferro. Gli intercolumni dello scheletro metallico sono chiusi da pareti vetrate che, essendo arretrate, permettono di osservare la struttura metallica. Il capannone laterale più basso si sviluppa sul cortile interno; la necessità di avere un piano sotterraneo e motivazioni di organizzazione produttiva, imposero su questo lato una costruzione a due piani, con un trattamento differenziato della struttura a ogni singolo livello. Malgrado le grandi dimensioni e l’uso di tecniche sperimentali, l'intero complesso fu realizzato in soli 5 mesi, destando grande scalpore negli ambienti artistici e culturali dell’epoca. Ciò ne ha fatto una delle opere più emblematiche del Protorazionalismo tedesco e dell’architettura del Novecento. Negli anni Settanta, quando l'AEG venne incorporata nel colosso industriale Siemens, gli organismi di tutela dei monumenti ne hanno vietato qualsiasi modifica sia strutturale sia del logo posto all'interno del frontone. (testo e immagini di Pierluigi ARSUFFI, tutti i diritti riservati)